venerdì 7 ottobre 2016

Narrare la fine dell’era dell’acquario – Tre romanzi che raccontano un sogno perduto

In questo articolo si parla di tre grandi romanzi, diversi tra loro per genere, uniti dalla stessa sensibilità. Il cantare la fine di un epoca di amore e rivolta. Un era in cui si verificarono profondi sconvolgimenti. Un tempo in cui i giovani assaltarono il cielo.
Lo scenario in cui sono ambientati i 3 romanzi
L’era dell’acquario è finita. La controrivoluzione avanza tritando il sogno di milioni di giovani di rovesciare il mondo. Il decennio settanta, negli Stati Uniti, inizia imprigionato dentro un dispositivo tecno militare paranoico. Alle ossessioni del vecchio capo del FBI  J. Edgar Hoover – per pantere nere e gruppi del black power – si aggiungono la fobia del nuovo presidente Nixon per gli hippy. In quei giorni l’inquilino della Casa Bianca non dormiva sonni tranquilli a causa di ragazzi capelloni, drogati e bombaroli. In Vietnam l’esercito più potente al mondo stava perdendo la guerra grazie all’eroica resistenza del popolo vietnamita e al rifiuto di una generazione di uccidere per esportare la “democrazia” americana. L’offensiva reazionaria sfrutta gli avvenimenti successi nella notte tra l’8 e il 9 agosto del ’69 a Bel Air. In questa località collinare, dove amavano vivere le star di Hollywood, era stata compiuta una strage: delle persone penetrano dentro la villa del regista Roman Polaski uccidendo sua moglie, la bellissima attrice Sharon Tate, e quattro sfigatissimi ospiti che si trovavano nella casa in quel momento. Gli assassini tracciano, sui muri della villa, con il sangue delle vittime le scritte Helter Skelter Piggies, titoli di due canzoni contenute nel White Album dei Beatles. Il 12 ottobre la polizia arresta i presunti colpevoli: Charles Manson e cinque componenti della “family”, che orbita intorno a lui, una strana aggregazione a metà strada tra comune hippy e setta esoterica. Se prima di questi arresti la middle class quando vedeva un capellone rideva. Dopo aveva paura di incrociare il proprio sguardo con quello di un hippy. Questo era quanto di meglio si potesse dare in pasto ai media per criminalizzare la controcultura. Il 4 maggio ’70 alla Kent State University, Ohio, la guardia nazionale apre il fuoco sugli studenti che manifestavano contro la guerra. Quattro vengono uccisi e nove feriti. Il 14 dello stesso mese due studenti afroamericani muoiono e dodici restano sul terreno feriti per mano della polizia, nel corso di una dimostrazione alla Jackson State University, Missisipi. Continuo questa lista di tragici eventi con il concerto dei Rolling Stones a Altmont dove venne assassinato dagli Hells Angels – ingaggiati da Mick Jagger per fare il servizio d’ordine – il giovane afroamericano  Meredith Hunter. Concludo il necrologico con le morti di Jimi Hendrix e Janis Joplin avvenute rispettivamente l’8 settembre e il 4 ottobre del 1970.
Paura e Disgusto a Las Vegas

Paura e Delirio a Las Vegas è un romanzo, pubblicato nel 1971,  in parte autobiografico di Hunter S. Thompson incentrato su di un viaggio effettuato dall’autore alla volta della città di Las Vegas nel Nevada. Il libro racconta le avventure allucinate del giornalista sportivo Raoul Duke (alter ego di Hunter S. Thompson)  e del suo avvocato samoano il Dr. Gonzo (nome dietro il quale si cela in realtà l’avvocato e attivista chicano Oscar Zeta Acosta) in viaggio – su una Chevrolet  decappottabile rossa con un bagagliaio pieno zeppo di droghe e alcol – direzione Las Vegas. La capitale del gioco d’azzardo e del sogno americano a basso costo. I nostri eroi devono prima assistere alla Mint 400,  famosa e sgangherata corsa di moto e dune-Buggy nel deserto, e successivamente seguire i lavori della conferenza antidroga dell’associazione nazionale dei procuratori distrettuali. Sotto l’effetto di un miscuglio di sostanze che non teme confronti – cocaina, LSD, etere, stramonio, mescalina e molte altre – assistono a una trasformazione totale della realtà che assume molteplici e imprevedibili sfaccettature. Da quelle psichedeliche, colorate e fantastiche a quelle grottesche, tragiche e disperate. I due alterati protagonisti si scontrano con la realtà allucinante e kitsch della Las Vegas dei casinò. Un libro di culto scritto in puro stilegonzo journalism, sorretto da dialoghi strepitosi, dipinge un magistrale quadro degli Stati Uniti di quegli anni. L’America degli sconfitti persi in un abisso che le droghe e i miti andati in frantumi non hanno saputo colmare. Consiglio i lettori di leggerlo – come ha fatto il sottoscritto – in macchina viaggiando da Red Rock, in Arizona, a Las Vegas.
I mastini del Dallas
I Mastini del Dallas romanzo scritto da Peter Gent ex giocatore professionista di football della Nfl. L’autore nel 1973, data di uscita del libro, ebbe il coraggio di ribellarsi al sistema e all’avanzata di un nuovo modello di sport votato esclusivamente al denaro e all’immagine. Una profezia che indica la direzione che avrebbe preso l’America – non solo nello sport – fatta radiografando i reni e la colonna vertebrale dei vecchi giocatori. Il romanzo racconta gli otto intensi giorni, da una partita  all’altra, di Phil Elliott spesi nel tentativo di conquistare un posto da titolare o quantomeno un prolungamento di contratto. L’autore ci narra la vita di un giocatore artritico e a pezzi che si regge in piedi a colpi di codeina, ghiaccio, siringhe, marijuana e alcol. Il tutto inserito negli Usa di inizio ’70 quelli delle marce di protesta contro la guerra del Vietnam, delle paranoie anti-hippy e del razzismo. Magistralmente descritta la pezza di mescalina che si prende a Phil. Un romanzo di  una devastante carica eversiva.
Vizio di Forma.
Vizio di Forma è un romanzo scritto nel 2009 da, uno dei maestri del postmoderno, il misterioso Thomas Pynchon. La storia e ambientata a Los Angeles, per la precisione a Gordita Beach località abitata da hippy e surfisti,  nel 1970. Alla presidenza della nazione c’è Nixon che continua a inviare truppe non solo in Vietnam ma anche Cambogia. La guardia nazionale spara agli studenti alla Kent State University e Charles Manson è accusato della strage di Bell Air. Il detective privato Larry Doc Sportello della LSD (Localizzazione, Sorveglianza, Discrezione) Investigazioni – perennemente fatto di   erba che gli addolcisce il mondo – riceve un incarico dalla sua ex fidanzata Shasta. La donna , che ora ha una relazione con il proprietario immobiliare Mickey Wolfmann, gli chiede di sventare il tentativo della moglie di farlo internare in manicomio. Contemporaneamente Doc accetta anche un secondo lavoro rintracciare, un uomo scomparso, Glen Charlock che guarda caso e la guardia del corpo di Wolfmann. Il nostro sballato investigatore riceve un altra delega: rintracciare il defunto musicista Coy Harlingen che la vedova ritiene sia ancora vivo. In certi momenti questo noir ricorda Il lungo addio di Raymond Chandler. Come nel hard boiled classico Pynchon procede per accumulo, ma la direzione della trama non porta alla comprensione, alla soluzione giudiziaria, ma verso il caos. L’autore attraverso il noir – genere che racconta gli Stati Uniti meglio di altri – ricrea il mondo perduto dei ’60. Un libro da leggere assolutamente. Magnifico!

LIBRI PER LEGGERE NEW YORK

Conoscere New York tramite libri e fumetti è possibile. Quale titolo consigliare, tra i migliaia esistenti, al lettore di Laspro è impresa ardua. Impossibile. Troppo vasta la produzione di storie ambientate nella Grande Mela. Con quale coraggio sceglierne alcune a discapito di altre. Tutti oggi conosciamo New York già prima di visitarla, per la prima volta, grazie alle nostre letture. Per non parlare di film, documentari e servizi dei telegiornali che hanno reso attraverso le immagini  familiari ai nostri occhi i luoghi della città. Il turista, durante la prima settimana di permanenza in città, è convinto di esserci già stato. Passeggiare a  Manhattan è un continuo deja vu. Guardare le scale antincendio dei palazzi ci catapulta dentro un inseguimento tra guardie e ladri, dove noi, e non una star del cinema, siamo i fuggiaschi. Consapevole dell’impossibilità di affermare che quelli di cui scriverò sono i libri che meglio rappresentano New York, scelgo a caso dei titoli dagli scaffali della mia libreria.
Partiamo dal thriller storico Il dio di Gotham di Lyndsay Faye (Einaudi). La storia narrata si svolge nel 1845. Timothy Wilde, il protagonista, lavora in un bar ma un incendio brucia il locale che gestisce e lo lascia sfigurato. Trovatosi senza lavoro Timothy accetta, senza entusiasmo, un impiego procurato dal fratello nella neonata polizia di New York, creata su spinta del Partito Democratico. Durante un turno di ronda  nella sua zona di competenza, i Five Points, il quartiere più malfamato della città, si imbatte in una pupattola, una prostituta bambina, i cui vestiti sono coperti di sangue. La ragazzina gli racconta una storia secondo la quale decine dei suoi coetanei sarebbero stati uccisi e sepolti nella foresta nei pressi della 23ma strada. Il romanzo è un thriller piacevole da leggere ma la sua forza è nella ricostruzione della vita della città a metà Ottocento. Il corpo stabile di polizia aveva difficoltà di affermazione poiché inviso ai nativi newyorkesi, in quanto in antitesi ai valori patriottici della rivoluzione. L’abolizione dello schiavismo negli stati del Nord non determinò emancipazione e integrazione degli afroamericani. E poi c’era il problema della massiccia immigrazione, in quegli anni, degli irlandesi a causa della peste della patata che affamava l’Irlanda.
Il secondo libro consigliato, se volete saperne di più sui Five Points, è C’era una volta New York Storia e leggenda dei bassifondi di Luc Sante (Alet edizioni). L’autore è stato il consulente storico di Martin Scorsese per il film Gangs of new york. Questo saggio si può descrivere come un trattato sui vizi e le insidie che la città offriva alle classi subalterne nell’Ottocento. Si legge nella prefazione: «New York è una costellazione molto più grande della somma  delle parti che la compongono; è una città e anche una creatura, una mentalità, una malattia, una minaccia, un’elettrocalamita, un apparato scenico da quattro soldi, un catalizzatore di disgrazie». Il libro ci parla della nascita di luoghi che ancora oggi rappresentano il mito della Grande Mela. Strade popolate da figure metropolitane, il barista con i baffi a manubrio, il delinquente con la maglia a righe, il giocatore di poker con la visiera verde e lo sbirro che fa roteare il manganello,  immagini assimilate nel subconscio della città che assumono, per gli abitanti, i contorni di una vera e propria tradizione. Come altro spiegare  che la Bowery mantiene ancora il sentore di bettola e di bordello che non merita più dalla prima decade del secolo scorso, forse dipende dal fatto che i Bowery Boys, una delle prime gang della città, hanno ispirato commedie e film fino al 1958. Sicuramente il mito della Bowery, si rifondava nella seconda metà degli anni ’70 del Novecento in un locale, il CBGB’s, dove nasceva il punk.
Abbandoniamo le leggende e le gangs di New York per passare a due libri del grande scrittore Jonathan Lethem. Citarli a un tavolo di hipster in un locale del Pigneto permetterà al lettore di Laspro di spiacionare e rimorchiare. Il primo romanzo Chronic City (Il Saggiatore) è ambientato in una Manhattan soggetta a perenni nevicate – i fiocchi cadono in tutte le stagioni – dove la popolazione vive terrorizzata a causa dei continui avvistamenti di una tigre. Il protagonista Chase Insteadman, campa grazie ai diritti di immagine derivati dalla sua giovinezza da star di una popolare sit-com. La sua presenza è sempre richiesta nel jet set anche per via di una tragedia in pieno svolgimento cui i tabloid riservano molta attenzione: la sua fidanzata è alla deriva, a bordo di una stazione spaziale, nella stratosfera. Nella sua vita artificiale, una routine cadenzata da feste e cene esclusive nell’Upper East Side, entra prepotentemente in scena Perkus Tooth, un critico pop farneticante, complottista e paranoico. Perkus con la sua sapienza controculturale, aiutato dall’abuso di marijuana, attira Chase in un’altra Manhattan, dove gli interrogativi su cosa sia reale e che cosa sia falso assumono un’urgenza sconvolgente. Un romanzo eccezionale. Un capolavoro!
L’ultimo lavoro di Lethem, uscito in Italia nell’aprile 2014, I giardini dei dissidenti.(Bompiani) è un affresco del comunismo statunitense dagli anni ’30 del secolo scorso alla nascita di Occupy Wall Street.  A chi scrive, questo romanzo ha ricordato, nella struttura e nella scrittura, Underworld di Don DeLillo (Einaudi), che io considero il più grande romanzo della seconda metà del NovecentoI giardini dei dissidenti ci racconta di due donne eccezionali: Rose Zimmer, nota a tutti come la Regina Rossa di Sunnyside, zona del Queens famosa per il suo esperimento di architettura socialista, è una comunista ortodossa che s’impone con  la sua personalità a famigliari, vicini di casa e membri del partito. La figlia Miriam è impregnata di sogni utopici e desiderosa di fuggire dall’influenza della madre per abbracciare la controcultura del Greenwich Village. A un certo punto del romanzo – anche nell’opera di Lethem ricorre il mito della Bowery – Miriam dirà, mentre cammina durante una bufera di neve per la prima volta  insieme al suo futuro marito Tommy: «Sai perchè si chiama Bowery? Qui è dove un tempo New York finiva. (…) Gli Olandesi avevano questo sentiero che conduceva alle fattorie e ai boschi. Qui c’era un padiglione, una bower, una specie di pergola gigante (…). Passavi attraverso il padiglione, e uscivi dalla città, entrando nel territorio selvaggio».
Finisco i miei consigli con New York di Will Eisner (Einaudi) la più importante graphic novel della storia della letteratura. Non essendo degno di scrivere di un opera così immensa farò parlare direttamente l’autore. «Viste da lontano, le città sono un mucchio di grandi edifici, grandi quantità di persone e grandi aree. Ma questo per me non è “reale”. La realtà è come la grande città viene vista dai suoi abitanti. La vera immagine è nelle crepe del suolo e nelle piccole componenti delle sue architetture, là dove turbina la vita quotidiana». Chi non conosce il lavoro di Will Eisner colmi subito questa voragine correndo dal proprio libraio di fiducia.
Il Tacco del DUKA

mercoledì 5 ottobre 2016

Il sogno di Alice : la grande mareggiata che sovvertì l’etere

Mi è venuto spontaneo iniziare la recensione de Il Sogno di Alice (creatività e suoni 1976-77) di Felice Liperi sulle note di White Rabit dei Jefferson Airplane, brano di apertura della prima trasmissione di Radio Alice. Il saggio in questione ripercorre la nascita delle radio libere nel Belpaese – che diede il la alla più grande rivoluzione linguistica avvenuta nell’Italia del novecento.La creatività rivoluzionaria del proletariato giovanile cavalcò l’onda scaturita dalla sentenza della Corte Costituzionale del 28 luglio 1976 – che toglieva il monopolio alla RAI consentendo la libertà di trasmissione anche ai privati – invadendo l’etere in un assalto al cielo consapevole che non c’è futuro.
Il saggio apre con la descrizione dell’arretratezza dei linguaggi e delle proposte – soprattutto in ambito musicale – della radio e della televisione di stato in Italia: paese – talmente bacchettone – che prima di questo decreto era stata capace di censurare, non solo i giovani cantautori – De Andrè e Guccini – che rivoluzionarono la canzone italiana, ma anche cantanti nazionalpopolari come Modugno. L’autore prende giustamente le distanze dalla vulgata sinistronza che vede nella nascita della libera emittenza l’inizio – della propria fine – dell’egemonia culturale di craxismo e berlusconismo. Liperi riconosce la rivoluzione che modernizzò il paese innescata dal movimento del ’77, una potenza che accumulava forza grazie a un utilizzo altro del  telefono, che permetteva un feedback tra speaker e ascoltatori e si avvaleva del microfono aperto. Per la prima volta gli ascoltatori non sottostavano al messaggio: erano il medium. Le forme di vita – attraverso comportamenti sociali autonomi e diffusi – occuparono la modulazione di frequenza strappando allo stato il monopolio della comunicazione, riappropriandosi della diretta fino a quel momento appannaggio delle sole messe natalizie e partite di calcio.
Allora, una  generazione di non garantiti – che diede vita a un indecifrabile  movimento – rivoluzionò i linguaggi attraverso la musica, la grafica, il fumetto liberando – per una breve stagione – l’infosfera (il futuro cyberspace). Il Sogno di Alice è senza dubbio un buon libro che consiglio alle nuove generazioni per capire le origini di consumi culturali, stili e pratiche antagoniste che caratterizzano i movimenti di oggi. Non sono d’accordo con la visione dicotomica di Liperi – a mio avviso scivola nella solita buca – di un settantasette diviso in creativo vs violento. Quel movimento aveva – come l’idra – un unico corpo e molte teste. I versi di Manfredi, Skiantos e Gaz Nevada raccontano, con ironia, la violenza delle strade di quei giorni. Lo stesso fece il fumetto. Basti ricordare una delle prime storie di Ranxerox – disegnato da Tamburini – con gli spari del protagonista sulla vecchietta – con in tasca L’unità – che ha venduto agli sbirri il padre – e suo costruttore – latitante. Dissento dall’autore quando definisce le ambientazioni metropolitane – pullulanti di drogati, teppisti e prostitute – del coatto sintetico come anticipatrici degli scenari di Gomorra. I lavori di Tamburini e Liberatore sono radicali, nello stile e nel pensiero. L’opera di Saviano no. In ultimo, non mi sarei aspettato che un critico musicale vedesse nella Banda Osiris – di dandiniana memoria – la continuazione dei mitici Skiantos. Concludo con le parole di Radio Alice durante l’insurrezione di marzo: “Tutti abbiamo fatto le molotov. Tutti abbiamo lanciato le molotov”.

lunedì 3 ottobre 2016

Sudafrica: suggestioni a Cape Town



E Città del Capo non delude le aspettative; oceano, foresta, aree naturalistiche, montagne e tessuto metropolitano si susseguono ed intrecciano con equilibrio ed armonia.



Il  risultato è fantastico, lo spartito magnifico. La Table Mountain, rilievo totalmente piatto ne rappresenta il centro geografico ed è un luogo eccellente da cui ammirare e scoprire le geometrie e le linee di questa città, di come parla con il mare, e scrutare con brividi e lacrime la desolante Robben Island.
L’altipiano rappresenta una fantastica attrazione naturalistica in cui animali selvatici ed una varietà infinita di piante sono una piacevole e continua scoperta. La cima piatta si può raggiungere sia con la teleferica (spesso chiusa per vento) con una fantastica escursione (semplice solo all’inizio, poi abbastanza ardua). Fare la passeggiata la domenica mattina significa condividere questa piacevole esperienza con decine di famiglie capetoniane.
Ugualmente spettacolare è la strada (da percorrere in macchina o, per i super allenati, in bicletta) che dalla base della teleferica  porta a Lion’s Head ed Signal Hill; è un tragitto ci ha regalato alcuni dei panorami più suggestivi di Cape Town.
Come emozionante è stato giungere in città dalla N1 e ritrovarsi di fronte un enorme ritratto di Mandela  realizzato su un’intera facciata di un palazzo. Forza e passione.
Città del Capo è vento ed odore del mare. Azzurro su verde, e stili architettonici su cui si accavalla un continuo processo di modernizzazione (talvolta devastante). Processo che ha generato ampli stradoni, palazzi in acciaio e vetro, geometrie talvolta eccessive, che però, non riescono ad offuscare il fascino di questa metropoli. Città in cui persistono ed emergono con chiarezza e durezza grandi problemi e squilibri, tra sovraffollamento e mancanza di servizi, ville e township; in cui povertà e disoccupazione fanno sanguinare l’anima. Una città in cui il cemento ed il grigio rincorrono e molto spesso raggiungono le vecchie linee, ma è sempre possibile stupirsi con una piega di colori nel prossimo vicolo.
Camminare per Stand Street, osservare le curve e lo stile che riportano all’Europa del 1800, ammirare mercati tipici ed artigianato locale, respirare odori che vengono dall’oriente lasciano a dir poco felicemente spiazzato. Nella punta estrema dell’Africa, questo continente si mescola e si fonde, culturalmente,  con Asia ed Europa. Cafffè e curry, odori e suggestioni dai molti food store in cui fermarsi e mescolare sapori. Tra i vari locali, ricordo con piacere una caffetteria su Loop Street che caratterizza il suo stile con richiami alla bicicletta ed al cicloturismo: presenta varie offerte per conoscere la penisola del Capo su 2 ruote, oltre a vendere magliette ed accessori  davvero belli, con un packaging stiloso (www.apresvelo.com) .
E’ piacevole gironzolare tra Long Street – da vedere ed ammirare il Pan African Market – ed il mercato dei fiori di Adderley Street.

In un giardino bambini di ogni etnia giocano insieme, si rincorrono, cadono e sorridono. Restiamo a guardarli. Come visioni artificiali si sovrappongono immagini viste nei chilometri percorsi, township, povertà ai bordi della strada. Colori che squarciano il buio. Forse. Forse l’arcobaleno è possibile. Forse.
Da un laboratorio di moda esce l’inconfondibile voce di Mama Africa, Miriam Makeba.
Respiro le note, suoni che hanno il sapore della terra e degli alberi, di questo atelier, in cui arte e territorio si uniscono all’armonia della  musica. Sorrido al tramonto, a questa canzone Sunset Africa. Colgo l’attimo, il kairos, respiro a pieni polmoni le ultime note.
Qualche passo e dei bambini mi chiedono degli spicci. Forse, penso, forse. I loro occhi sono profondi scrutano. Spero abbiano dubbi, spero abbiano possibilità. La loro pelle è nera: la povertà ha ancora un colore della pelle, anche qui, nonostante il tramonto, nonostante l’arcobaleno, nonostante le note.
E’ come passare dallo stato gassoso a quello solido, lascio loro un po’ di rand. Vedo una Chiesa, un’agenzia di viaggio pubblicizza un viaggio a molti zeri. E’ancora troppo vicino il ’91; e tra forma e sostanza il tempo si accorcia ulteriormente. Continuo a camminare, a scorrere, fluido; stato magmatico nei miei pensieri.
Prendiamo la macchina, nel traffico di un giovedi di inverno (in Italia è estate) e con la guida a destra c’è sempre un po’ di suspence; arriviamo nel nostro alloggio , il Drey Lodge, un simpatico appartamento senza infamia né lode gestito da un chiaro discendente dei boeri, al confine tra i sobborghi di Rodenbosch e Newlands. Un altro romanzo di Deon Meyer, Safari di sangue (davvero godibile, il migliore che ho letto di questo autore) ambienta alcune scene qui, per poi snodarsi tra chilometri e paesaggi.
Querce, giardini e famosi stadi di cricket e rugby, sembra di attraversare una campagna del nord europea. Padroni portano a passeggio i propri cani. Sono così vicine e così lontane le township. Decine di chilometri ed un altro mondo. Il paese dell’arcobaleno è anche questo, lo comincio ad afferrare con chiarezza.
Al risveglio fa freddo, ma il sole preannuncia una splendida giornata. E dai prati dei sobborghi meridionali con un nuovo spartito affrontiamo e scopriamo ancora la città.
Il profilo delle acacie si staglia sui versanti delle montagne. Un film di immagini, di colori, di attimi da ricordare. Bo Kap, quartiere tipico, salvato dalla folle distruzione dell’apartheid che ha raso al suolo il suo gemello Six District, abitato dalla comunità musulmana. La mente viaggia su alcune pagine di Carta Bianca di Deaver, libro che sconsiglio vivamente (l’autore – e sto facendo outing – a me non dispiace, ma questo volume della saga di James Bond è profondo meno di una vaschetta per il ghiaccio). Il Waterfront , il vecchio porto della città, oggi salvato dall’abbandono e trasformato in un moderno polo turistico, con  vari ristoranti – che offrono ottimo pesce –artisti di strada ed offerta di escursioni in mare e nella città.

E’ dal Waterfront che ci si imbarca per la desolata e desolante Robben Island. Isola piatta, battuta dal vento e dalle intemperie, in cui la gioia è stata più forte del potere. Il seme della resistenza, della civiltà e della disobbedienza, piantato e curato dalle lacrime, dai sogni e dal sangue di prigionieri in grado di essere duri senza perdere la tenerezza, ha dato nuova dignità a tutti noi  .
Saluto le statue di Mandela, monsignor Tutu, Lutuli (fondatore ANC) e De Klerk, tutti insigniti del premio Nobel per la pace. E penso di giocare a “trova l’intruso”; c’è ve lo assicuro

: chi costruisce ha una statura etica altra rispetto a chi raccoglie (e magari fino a qualche tempo prima era un meccanismo dell’ingranaggio). Continuo a camminare, felice, in questa area che riterrei un po’ troppo turistica ovunque, ma non qui, con l’Oceano di fronte e la Table Mountain dietro. Mi gusto gli edifici vittoriani, i caffè che non vogliono hipster ed anche le foto “ricordo” con il profilo della montagna piatta.
Passando sotto la Torre dell’Orologio giunge, portato dal vento, qualche pezzo Kwailo (significa arrabbiato) e nasce dalla contaminazione tra house, atropo e beat. Un sound meticcio, denso, ricco di suoni, paradigma delle metropoli di questo paese.
Dalle note ai fiori, spartiti di musica e colori. Piante, alberi, biodiversità, gioia: tutto questo è il fantastico Kirtenbosh National Park, primo giardino botanico ad essere riconosciuto patrimonio dell’UNESCO. Ci sono oltre 22000 specie di piante, con uno sfondo ed una cornice da sogno.
E’ possibile passeggiare e vagare in questo giardino per ore, attraverso percorsi, scale e ponti.
Un nuovo tramonto e poi il buio. Saluto le prime stelle (che non riconosco), mentre prepariamo i bagagli. Giorni e notti sono volati a Città del Capo, che non mi ha deluso. E le aspettative erano alte.
Ci prepariamo ad altri orizzonti e sorprese, molto vicino, questa volta: c’è la Penisola del Capo e la leggenda in cui storia e natura danzano insieme.

venerdì 30 settembre 2016

Sudafrica: wineland tra gusto e suggestioni

… il viaggio lungo la N1 continua piacevole, il traffico è praticamente assente, solo poche macchina e qualche autotreno in più. E’ un altopiano continuo e si viaggia sempre tra i 1000 e 1500 metri,  nonostante ciò sono molte le catene e le vette che fanno da fondo.


Vedo i primi springbok, la gazzella sudafricana, che è mascotte e  dà il nome della nazionale di rugby. Nazionale che ha vinto 2 coppe del mondo, nel 2007 e, soprattutto, nel 1995. Nella finale del 24 giugno del 1995 il Sud Africa riesce a battere la corazzata neozelandese e diviene il simbolo di una nazione che vuole rinascere dopo aver superato il buio periodo dell’apartheid. E’ il giorno in cui tutti supportano gli springbok, seppur da sempre il rugby è lo sport degli afrikaner; Nelson Mandela, Presidente da un anno entra in campo con la maglia e cappello della nazionale, e tutto ciò è raccontato nel film Invictus, che ho visto non troppo tempo prima di questo viaggio. Le immagini del film si confondono con la storia, e la pellicola è sempre un bel modo per narrare belle storie.
Penso a questo mentre la nostra piccola vettura prosegue , e penso anche che nonostante tutto, secondo me, il rugby, in questo Paese, continua ad essere lo sport dei bianchi ed il calcio dei neri.
Almeno questo mi raccontano i campetti delle periferie che abbiamo attraversato; facciamo benzina a Blomfontein (460 rand, circa 34 euro, la macchina non consuma molto e la benzina costa poco). Do un’occhiata a qualche rivista di sport, il Paese si prepara ai mondiali di rugby in Inghilterra e, vedendo gli articoli, le immagini ed i giocatori, penso che il mio giudizio sulla permanenza della divisione tra calcio e rugby non sia proprio campata in aria.
Blomfontein è nella regione del Sud Africa chiamata Stato Libero, che si riferisce all’ex stato razzista Stato Libero dell’Orange, fondato nel 1854 ed in cui i neri non potevano avere né terra né diritti; dal 1914 divenne uno dei bastioni dell’apartheid e nel 1970 fu uno dei bantustan,ossia degli stati artificiali voluti dai bianchi ed in cui furono trasportati e costretti tutti i neri (divenivano cittadini di un bantustan in base all’etnia di provenienza, anche se non avevano mai messo piede in quel territorio). L’assurdità dell’uomo non ha fine. Ma il seme della ribellione è stato più forte e dal cortocircuito, grazie all’opposizione ed alla resistenza di uomini e donne il Sud Africa ha raggiunto la dignità. L’ANC nasce proprio a Blomfontein.
Continuiamo a viaggiare, il sole scende veloce alla nostra destra colorando le rocce e facendo sfumare i contorni. Superiamo la città di Beaufort West (dove rifacciamo benzina).
Diviene buio e il cielo sopra di noi è un tappeto di stelle. La strada non è minimamente illuminata ed i pochi autotreni, che si superano tra loro anche in curva, non hanno troppo rispetto di una piccola vettura come la nostra. Gli ultimi 150 chilometri si sentono, arriviamo Franschhoek  dopo quasi 1200 chilometri.
Il nostro bed and breakfast è il Sunny Place (30 Akademie Street Franschhoek, 7690), una struttura molto carina, anche se dannatamente fredda. Consiglio vivamente a chi viaggia in questo periodo (nostra estate/loro inverno) nella zona interna del Sud Africa di dotarsi di una stufetta elettrica, noi lo abbiamo fatto. E’ stato molto utile. La nostra abitazione (con cucinino) era curata nei dettagli, comoda e con una porta finestra che conduce in un bellissimo patio interno.
In questa zona vi sono gli insediamenti europei più antichi del Paese Franschhoek, Stellebonsch, Paarl. E’ la zona delle wineland, in cui è possibile spostarsi da una azienda ad un’altra e degustare vino.
In realtà il vino è prodotto in moltissime altre zone del Sud Africa, penso all’Overberg ad esempio, e si contano oltre 20 strade del vino;  ma solo le aziende produttrici più antiche (rientranti in un raggio di 60 km da Cape Town) insistono sull’areale delle winelands.
Il vino sudafricano è eccezionale, così come quello argentino, resto scettico su quello californiano, almeno per quello che ho potuto assaggiare. Parlo ovviamente di standard qualitativo medio, senza tirare in ballo “super bottiglie” , che mediamente non rientrano nel budget-viaggio. Ritengo però la qualità media l’indice maggiormente interessante per valutare il livello produttivo vitivinicolo.
Anche fuori dall’Europa l’asticella si sta alzando notevolmente. Detto ciò l’enorme risorsa dell’Italia risiede nella ricchezza di biodiversità e nei notevoli e differenti micro-clima che ci dotano di una capacità produttiva e qualitativa unica.
Stellebonsh è probabilmente la cittadina più conosciuta, e presenta aziende notevoli, come ad esempio Uva Mira o Le Bounher. Le aziende sono circa 75, ed un buon consiglio è mettere in agenda la visita di domenica in cui ci sono le Sundays in Stellenbosch, con apertura di aziende ed offerte particolari. Per tutte le info www.wineroute.co.za
Franschhoek è un vero gioiello, posizionata su una stretta valle è definita la capitale culinaria del Sud Africa. Si respira fortemente l’eredità francese, derivante da 277 ugonotti che in fuga dalle persecuzioni nel loro paese ricevettero in concessione dalla Compagnia Olandese delle Indie. Questo territorio, conosciuto come “Angolo dell’elefante” (per i numerosissimi elefanti che erano – purtroppo erano – presenti), divenne Fanschhoek, l’angolo francese. Sono molte le cose che si possono fare in questo splendido paesino curato in ogni dettaglio oltre, ovviamente, degustare un ottimo vino (La Bri e La Petite Ferme). Indubbiamente si può mangiare: come dicevo è la capitale del gourmet, ed uno degli indirizzi  migliori è Holden Man (occhio ai prezzi, sia qui che ovunque)a cui accompagnare la cioccolata dell’ Huguenot Fine Chocolates.
Poi si può passeggiare a piedi o cavallo per diverse ore incrociando vigneti (curatissimi, con cordone speronato) e scorci mozzafiato. Oppure prendere il bellissimo wine tram(www.winetram.co.za) , che mostra come un vettore possa coniugare turismo e tessuto produttivo, divenendo elemento in  grado di essere sintesi e volano di un percorso.  Penso ad alcuni tratte poco utilizzate nella mia Regione (Lazio), soprattutto il fine settimana e quanto sarebbe funzionale creare appuntamenti in grado di invogliare ed informare i turisti: penso ad esempio alla possibilità di coniugare flussi da Roma – anche attraverso l’utilizzo della bici sul treno – ed utilizzare il prodotto eno-gastonomico per far conoscere, degustare ed apprezzare i prodotti. Il viaggio stesso diverrebbe parte centrale della “gita”, diverrebbe esso stesso un evento.
In questo angolo etilico e di relax potrei rimanere per mesi ad disegnare progettualità, magari continuando a leggere Deon Meyer autore sudafricano di gialli. Il romanzo dal titolo Cobra è ambientato anche qui nell’angolo francese; non è il suo miglior romanzo, ma con il passare dei chilometri ne scopriremo altri.
Ma il richiamo di Cape Town,  il cui eco mi giunge attraverso le linee della Table Mountain,  viste in foto ed in video; ed è qui vicino, a soli 60 km…

Colle Arcone, un olio da favola

Se vi aggirate nella provincia cuore verde d’Italia ovvero quella reatina, vi consigliamo di fare un salto e degustare un olio davvero unico, l’olio Sabina DOP dell’azienda agricola Colle Arcone di Enrico Scipioni.
L’azienda Colle Arcone come si può intuire dal logo, si caratterizza per l’allevamento del cavallo da tiro rapido pesante italiano; allevamento dalla grande qualità anche grazie alla forte passione di Scipioni stesso.
Quando la passione diventa certificazione di qualità .
Az. Agr. Colle Arcone di Enrico Scipioni. Via Colonnetta, 2 02034 Montopoli di Sabina (RI). ph. +39 0765 279017 – +39 339 7561210 fax
Un rimando anche al sito ufficiale del Consorzio sabinadop per chi volesse maggiori informazioni

Un grande scrittore, Santiago Gamboa. Un bel libro, “una casa a Bogotà”.

In questo libro l’autore attraverso la descrizione di una casa racconta ed incrocia ed esistenza del protagonista con la storia e le storie di Bogotà.
Un libro in cui ciascun capitolo è una persiana da aprire per scoprire il mondo, partendo dalle strade della capitale colombiana. E’ un’analisi a tutto tondo che mediante concise ed appassionate digressioni del protagonista, dell’anziana zia – ex funzionaria ONU – ed in forma minore, ma sempre pungente e profonda, di altri personaggi, fornisce interessanti chiavi di lettura su argomenti riguardanti società, economia e politica su scala mondiale, con particolare riferimento al Paese andino.
Il filologo, questo è il lavoro del protagonista, orfano dall’età di 6 anni, narra la sua vita, le sue storie, la sua personale tragedia e da qui, ripercorrendo singoli eventi, promuove una serie di puntuali argomentazioni.
Un libro che attraverso le stanze della casa presenta una serie di “accadimenti” che segnano la vita del protagonista e ci stimolano a pensare, a guardare nelle pieghe, anche attraverso “letture ed interpretazioni che non sono più di moda”.
Nelle pagine del libro si possono trovare moltissimi spunti di riflessione;  lo stile veloce molto spesso deve rincorrere il pensiero che fugge chilometri o anni lontano seguendo le molteplici suggestioni proposte.
In sintesi è un libro che fa pensare, molto; ed indaga diversi  campi e temi mediante interpretazioni sociali e/o psicologiche.
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giovedì 29 settembre 2016

Obiettivo Mosca… e ritorno

Attraversare la Russia europea in macchina. Un viaggio attraverso l’Est Europeo, cercando di disegnare traiettorie che parlano di storia, natura, cultura..
Vedere Paesi diversi, conoscerne le culture, cercare similitudini e differenze in quello che fino a meno di 30 anni fa era il “blocco sovietico”, sino a giungere al Cremlino e nella Piazza Rossa.  E ritorno.
Questo è l’obiettivo, ma la preparazione e l’iter burocratici sono abbastanza articolati: capiamo subito che entrare in Russia in auto, tra assicurazione, visto ed altre pastoie, non è proprio easy. Dopo qualche fila, riusciamo, comunque, ad ottenere tutto il necessario. Un consiglio: chiedete info per l’assicurazione, e non sottoscrivetela prima di avere certezza sul tipo(ergo acquistate quella che vi consiglia – impone – l’ufficio consolare).
Si parte con una Polo di oltre 10 anni e già parecchi km nelle ruote (Turchia, Amsterdam, Portogallo…). E’ sera, il tempo di caricare la macchina e già l’autostrada corre via veloce… Italia, Austria, Slovacchia, sino al confine con la Polonia. Ricordatevi di comprare la”vignetta” (ossia un tagliandino adesivo da apporre sulla vettura) sia in Austria che in nella Slovacchia.
Superiamo Bratislava, proseguiamo per Zvolen, e continuiamo verso nord, incontriamo il Parco Nazionale del Bassi Tatra e, poi, il fantastico, Tatra National Park. Luoghi stupendi, incontaminati, viene la voglia di sostare qui: perfetto per il trekking e per il relax, con aspre vette, laghetti di montagna e le infinite varietà del verde offerte dai prati, bosco, conifere, sottobosco.
Ma abbiamo deciso di fare la prima sosta in territorio polacco, e così giungiamo a Zakopane, famosa stazione sciistica. Ebbene, abbiamo toppato. Non la consiglio assolutamente (forse per sciare in inverno, non so). Troppo, troppo turistica. Un “grumo” di caos che stride con la cornice di bucolica bellezza del paesaggio.
Decidiamo di proseguire oltre, circa 150 km per giungere a Cracovia.
Città fantastica, alla cui fervente vita culturale si associano una quantità infinita di ristoranti e pub dove bere una buonissima birra (e detto da me, che proprio non la amo..)
Il centro storico è un vero gioiello, in particolar modo la Piazza del  Mercato, con il Sukiennice (il mercato dei tessuti) e la Torre del Municipio. E tra i numerosi “night spilla turisti” (con prevalenza italiani,che gongolano proprio nell’essere presi all’amo…mah… non bisogna mica fare tutti ‘sti chilometri)  e le eleganti pasticcerie-bistrot si  può passeggiare in un’elegante miscellanae tra rinascimentale e barocco.
Anche la collina di Wawel con il Castello e la Cattedrale merita un bella visita, detto ciò la
cosa che più mi ha entusiasmato è il clima di sperimentazione in campo culturale che si respira. Clima che affonda le radici in una delle Università più antiche d’Europa, fondata nel 1364.
L’Università Jagellonica di Cracovia, in cui studiò anche Copernico, è il vero propulsore della città ed è una struttura stupenda, con un “chiostro” con intarsi in legno e portici con colonne ad arco acuto.
Cracovia è la capitale polacca della cultura, sia per la presenza di questa istituzione del sapere, sia per una molteplicità di attività che costellano il panorama artistico-produttivo: dalla musica, al design, alla moda.
E’ anche la città del bellissimo quartiere di Kazimierz, quartiere ebraico nella sua parte orientale. E’ il luogo di una delle tristi pagine del secolo scorso, con la deportazione del marzo ’43. E’ qui che è ambientato il film di Spielberg “Schindler’s list” e passeggiando si può vedere la “fabbrica della memoria”, oggi Museo,  ossia l’industria di pentole di proprietà di Oskar Schindler mediante cui riuscirono a salvarsi circa 1200 ebrei dalle atrocità del nazismo.
Nel quartiere ebraico vi consiglio di passeggiare per ulica Szeroka e giungere alla Sinagoga vecchia. Come da vedere è la Sinagog nuova (all’estremità nord di Szeroka)
Dopo qualche giorno in questa splendida città, accompagnati da una degna quantità di birra – che sarà una costante del nostro East Europe Trip – ci rimettiamo in viaggio.
Ma facciamo una sosta necessaria. Dura, dal fortissimo impatto emotivo, ma necessaria.
Il campo di sterminio di Auschwitz, per non dimenticare. Mai. Quanto può essere crudele ed infimo l’uomo. E quanto è  violento il negazionismo, violenza perpetuata da idioti che ancora oggi indossano maglie o bandiere con la croce uncinata. Troppi in Polonia, tanti, troppi anche in Italia
Non ci sono parole, non possono essercene. Entrare in quello spazio, ascoltare, leggere, guardare. I pensieri si fermano ed il silenzio si riempie delle urla del passato. Che non deve mai passare.
Finiamo la visita, ci sediamo prima di uscire, c’è un bel sole, il vento soffia e muove qualche filo d’erba.
Entriamo in macchina, senza voglia di parlare. Chiusi, un po’ sballottolati, così partiamo con il portabagagli aperto, e percorrere qualche centinaio di metri prima che qualcuno ci avvisi. Facciamo sorridere chi è sul ciglio della strada, sorridiamo anche noi. Prima di tornare in silenzio, ci vorranno parecchi chilometri prima di riprendere il flusso normale di parole e pensieri. I chilometri scorrono in direzione nord…

Morte nella steppa di Ian Manook, un viaggio tra le pieghe della Mongolia

Morte nella steppa, scritto da Ian Manook ed edito da Fazieditore nella collana Darkside, è un thriller dal ritmo incessante e notevolmente ben strutturato.
Ambientato in Mongolia, Paese dall’indescrivibile bellezza e dalla natura incontaminata (consiglio vivamente di visitarla, possibilmente durante i nadam – ossia una festività tradizionale a base di sport e gare ), questo libro ci porta attraverso le pieghe di uno Stato in cui antichissima tradizione e squilibri sociali della modernità, ne costituiscono elementi essenziali, spesso in contrapposizione non dialettica.
La storia narrata si dipana tra Ulan Bator, il Terelj ed il deserto del Gobi, alcuni dei luoghi imperdibili offerti dal territorio mongolo.
Il protagonista è il Commissario Yeruldegger, personaggio particolare, che entra di diritto in quell’ampia categoria  di detective – troppo spesso solo letteraria , purtroppo – in cui passione per la giustizia (intesa non solo e non sempre come giudiziaria, ma prevalentemente nella primaria esigenza di giustizia sociale) e conflittualità esistenziale con il sistema (… gerarchico, burocratizzato, corrotto..) ne rappresentano i caratteri principali.
Questo libro è il primo volume di una trilogia (personalmente aspetto con ansia, equiparabile a quella provata in attesa degli scitti di  May e Larsson , i successivi due tomi) in cui il commissario mongolo si confronta con politici ed affaristi, con neonazisti locali e magnati stranieri.
Un’indagine di polizia che è anche un’analisi della società mongola che avviene attraverso gli occhi, la vita e gli affetti di Yeruldegger e di altri protagonisti del libro, sempre in equilibrio sul sottile ma tenace filo che unisce una yurta (o gher, la tipica e tradizionale abitazione mongola) agli appartamenti in cemento o agli ultimissimi palazzi in vetro e acciaio che iniziano a spuntare nella capitale mongola

Teresa Batista stanca di guerra e l’unicità del Brasile

Il Brasile del sudore, del cacao, delle fazendas e  delle ingiustizie. Il Brasile che era fino a poco tempo fa, ed in alcune pieghe sopravvive ancora oggi. Ed è sempre il Brasile dei colori, dei sorrisi, della storia che diviene unica e che proviene da altre storie.
La cornice in cui si sviluppa Teresa Batista stanca di guerra, capolavoro del Maestro Jorge Amado, è il Brasile del nord, tra Aracajù e Salvador di Bahia, nel secondo e terzo decennio del novecento.
Attraverso la vita di Teresa l’autore dipinge un affresco unico del sertao, a cavallo tra gli Stati del Sergipe e di Bahia: storia di amore e conflitto sociale, costante, perpetua chiave di lettura di una società che per anni ha poggiato su uno squilibrio biopolitico la propria esistenza. E che ancora oggi presenta tracce evidenti di tale sbilanciamento.
L’odore acre dei postribili ed il “dolce” sapore del sale si fondono in un libro che parla di popolo, di samba di sofferenza, e di gioia, quella vera, quella quotidiana guadagnata giorno per giorno attraverso un abbraccio, la passione, un bicchiere in compagnia.
Teresa è una delle molte eroine presente nei libri di Amado, e rappresenta in modo paradigmatico un paese come il Brasile (in particolare la zona narrata nell’opera): ambivalente, pieno di contrasti e contraddizioni, ma bello, unico, acquerello di pieghe e sfumature. Dalle spiagge, alle strade di sabbia rossa – trilha mixta – che dal mare ti portano al’interno; del meticciato come ricchezza e dello squilibrio di razze come dato oggettivo della condizione sociale. Paese di oligopoli e miseria; del calcio e del carnevale, di ricerca e studio, di letteratura.  Di gioie e sofferenza. Di follie politiche e di poteri che logorano se stessi, di polizia e di aristocrazia. Ma in cui il popolo esiste, e si sente, si vede, non è mai un numero, perche vive.
E così Teresa, pur umiliata, violentata, sottoposta a soprusi, non si arrende, anzi è forte e coraggiosa. Altruista e pronta ad aiutare gli altri, ispira e costruisce la rivoluzione. Dalle case di appuntamento, alle piazze, dai porti alle campagne del sertao questo libro ti fa appassionare alle vicende di questa donna che potrebbe rappresentare il Brasile stesso.
Un libro da leggere e di cui innamorarsi, un paese da scoprire, ogni volta come se fosse la prima.

mercoledì 28 settembre 2016

Gli USA on the road

Gli USA on the road, attraversare un paese che ho immaginato, sognato, visto, letto un numero innumerevole di volte.
Pellicole, note, schiacciate di MJ, Naomi Campbell , il giovane Holden e Dawson sono stati alcuni dei colori con cui  il soft-power americano ha inondato  la tela della mia adolescenza e dei miei 20 anni. Con aggressività a tinte forte, come Pollock.


Con continuità, con distacco, con passione, con curiosità l’american way ha avvolto le mie fantasie, i miei miti, ed i paesaggi statunitensi sono stati teatro di infiniti ipotetici viaggi.
Le linee della Monument Valley con il cappello di Tex, la California di Steinback,  la ribellione on the road di Alex Supertrump (al secolo Cristoper McCandless, nel superbo film diretto da Sean Penn) e l’inseguimento tra Sharon Stone e Michael Douglas sulla highway 1 sono alcuni dei  fili di lana che si annodano nel gomitolo del progetto per il viaggio “on the road” per eccellenza.
Scegliere l’itinerario è uno dei tanti aspetti che rende un viaggio unico. Studiare, capire, ricordare immagini, frasi  o leggende, incrociare il piano delle memoria visiva  con le tabelle dei chilometriche, con i il desiderio di ammirare e costruire quel percorso ideale che “rappresenta la nostra essenza discrezionale di un assaggio di mondo” è una delle tessere che rende il viaggio unico. Tuo.
E’ l’incipit, la creta con cui possiamo modellare la brocca per la nostra sete di conoscenza.
New York, Memphis, New Orleans…le città scorrono sulla carta geografica e divengono appunti sul taccuino.
Dagli appunti sul quaderno alle indicazioni ed ai cartelloni nell’aeroporto JFK di New York. Ed il primo taxi giallo è guidato da un simpatico vecchiotto di origine jamaicana rappresenta un bell’assaggio del dinamico melting pot che rappresenta uno degli architrave di questa società, per quanto ne possa parlare quel losco figuro di Trump (facendo i dovuti e meritati scongiuri)
New York è fantastica; raccontarla è difficile, impossibile. Posso dire che attraversandola ho avuto la sensazione di “riconoscerla”,  di scorgere angoli già visti, anche se era la prima volta che la vedevo. Il potere della televisione e della rete.
Un graffito, una tag, lo skyline, Central Park, una fermata della metro, palazzi in brick rossi sono alcune delle immagini che affiorano nella mia mente.
L’hotel è il Queensboro , nel quartiere del Queen, per l’appunto 3805 -Hunters Point Avenue
Long Island City (New York), NY 11101- sufficientemente economico ed allo stesso tempo pulito e sufficientemente ospitale. E’ a qualche centinaia di metri dalla metro 7 (fermata Rawson Station); così da conoscere qualche spicchio di New York anche oltre Manhattan. Vicino ha parecchi negozi e fast –food (sono stati una lunga costante del viaggio, noiosi ma estremamente comodi…on the road anche essi).
New York è un infinito numero di strade, di potenziali traiettorie per narrarla, di possibili registri da usare. E’ un’ondata di sensazioni e di stimoli che passano dal ricordo, all’immaginazione, allo stupore. Una marea di particolari che ti avvolge mentre cammini emergendo da libri, film e canzoni.
Provo a focalizzarne alcuni, a sintetizzare in alcuni scatti e qualche parola dei ricordi e degli utili consigli.
La metropolitana con le sue fermate è di per sé un viaggio nel viaggio: cambiare linea, scendere, risalire, ammirare la stazioni, i pezzi colorati, fa emergere in chiaro-scuro molti degli aspetti più peculiari di New York. Dalla sovrapposizioni di stili al flusso di gente, dalle pubblicità alla fantastica abitudine di leggere in metro, dal ferro, al cemento al vetro. Permette inoltre di attraversare la città e di giungere direttamente in tutti i luoghi principali: la toponomastica delle fermate è un indice guidato di New York (Penn Station, Union Square, Canal Station, Times Square… fino ad attraversare tutta Brooklyn e giungere a Coney Island).
La metro è il modo per essere nel flusso, per scorrere e correre nella città; se volete, invece,  ammirare la città da lontano, soffermandosi sull’inconfondibile skyline bisogna arrivare all’estremità sud di Manhattan, e da qui prendere il South Ferry che parte ogni 30 minuti dalle 6:30 in poi. A proposito vi consiglio di acquistare il New York Pass (spendendo qualcosina in più avrete più possibilità e più libertà rispetto al CityPass), utile per l’imbarco.
E poi i musei che da soli giustificano un viaggio nella Nuova Amsterdam (è già, questo era il nome originale di New York, “fondata” nel 1626): il MET, il MOMA, il Guggheneim.
Su tutti il 5th Floor del MOMA: ricordo come ora di aver incassato pugni di bellezza attraversando le stanze di questo piano del Museo. Matisse, Monet, Van Gogh, Gaugin… incassavo stordito il susseguirsi di opere d’arte. Artisti su artisti, quadri su quadri. Colore su colore.  E poi le Damigelle di Avignone e la Chitarra di Picasso hanno fatto davvero male. Estasi e rincoglionimento, più o meno era questa la sensazione. Un chilum troppo forte con un’erba troppo buona.
Little Italy, sempre più piccolo, e il quartiere cinese, sempre più grande, con le infinite scale esterne e vicoli che sono cornice di milioni di film con inseguimenti e fughe.
Ma anche SOHO (South  of Houston street) con le sue boutique ed i suoi atelier o East Village, in cui poco rimane della culla della controcultura degli anni ’80.
Central Park è il vero cuore verde e pivot di Manhattan (per ammirarlo in tutto il suo splendore passeggiateci in largo e lungo ed ammiratelo dalla terrazza del Rockfeller Center). E questo Parco con altre aree verdi e di forte socialità  (Union Square su tutte), o con le bellissime passeggiate sia lungo l’Hudson che East River rendono questa parte della città uno dei posti più belli dove vivere. Non l’avrei mai detto prima di visitarla.
Ma il fascino della città è anche Harlem e la vicina (solo fisicamente) Columbus University, o DUMBO e Brooklin, il cui ponte merita una menzione a sé. Sarà la mia passione per i ponti, ma percorrerlo a piedi è stato davvero suggestivo.
Il Madison Square, Wall Street, la seconda Avenue ed il Palazzo dell’ONU, la Cattedrale di san Patrizio sulla 5th, scorrono come cartoline e rimangono impressi nella mente. Tra le varie istantane ve ne consiglio una nel Queens vicino alla metro 21st Van Alst è il MOMA PS1 (22-25 Jackson Ave, Long Island City, NY 11101), e gli edifici vicini che “scoppiano di pezzi e di colori”. Street art, urban art.
Giorni intensi a gironzolare a scoprire, ad intrecciare trame di film e racconti, a studiare angolazioni pensando ad inquadrature. Come sound un po’ di vecchio buon rap, qualche libro, magari Paul Austen con Trilogia di New York o, meglio ancora, Il Potere del Cane di Don Wislow. Tutto inizia da New York.
Anche questo viaggio. Affittiamo una macchina, non una Cadillac o una Chevrolet, sinceramente, potendo, avremo preso una Porsche, magari chiamata Little Bastard. Ma la cassa impone una Cruz Bianca… Affittata per 40 giorni. La prendiamo all’aeroporto, la lasceremo qui quando avremo l’aereo di ritorrno.
Salto al volante.. Destinazione sud.. Inizia l’on the road..

lunedì 26 settembre 2016

Dall’Orinoco a Rio: Caracas e Puerto la Cruz

Arrivare a Caracas di notte, giungere nell’ albergo prenotato e scoprire di non aver un posto dove dormire non è piacevole. La cosa diviene ancora più complessa se in quei giorni si svolge nella capitale venezuelana il summit del Mercosur e diviene impossibile trovare una sistemazione. A quel punto, grazie ad un receptionist disponibilissimo trovi telefonicamente un alloggio un po’ distante dal centro (Mountain View), a cui giungi alle 4, con un taxi il cui conducente ti spiega il coprifuoco, le complessità della città e ti offre di cambiare i soldi o di venderti la gripa, che è un prodotto tipico ma non propriamente enogastronomico.
Quando rifiuti – più che altro perché ancora non sappiamo dove dormiremo ed un pochino le storie sul coprifuoco, i vari sbarramenti e la copiosa security  (armata fino ai denti) notata in tutti gli alberghi  in cui hai provato a bussare in precedenza, ti hanno fatto salire un po’ l’ansia e girare le palle – il taxista ti guarda stralunato.
Il taxi si allontana dal centro e sale verso la montagna, prendiamo la stanza abbastanza sorpresi e colpiti dall’elevato costo, ma decisamente troppo stanchi per fare valutazioni e conti. L’unica cosa che capiamo è che bisogna allontanarci da Caracas: non c’è un posto per dormire e, forse, in questa città i costi sono troppo elevati – la cosa sembra assurda e sono curioso di capirci qualcosa in più..
Gli autobus sono tutti pieni, e l’unica soluzione potrebbe essere un taxi: trattiamo per una corsa fino a Puerto La Cruz, per vedere un po’ il mare e perchè da lì vogliamo puntare sulla Grand Sabana. Sembrerebbe un salasso, maritirando al bancomat scopriamo che il cambio effettuato dal circuito banacario venezuelano è a 60 (e non a 12, ossia quanto era stato quello applicato all’ aeroporto).. respiriamo e cominciamo ad entrare in mood vacanza.
Puerto la Cruz è una città abbastanza grande, ma decisamente più vivibile di Caracas. Ha una splendida passeggiata sul mare, lungo Playa Paseo, e vari locali in cui sorseggiare un frullato o un cocktail. Emerge con  chiarezza lo stridore di uno Stato ideato e  costruito per pochi e per le vacanze di pochi, in cui oligarchia e capitale hanno costruito, tra gli anni ’60 e gli anni ‘90 hotel, alberghi e modellato una vita notturna in funzione ed a piacimento di una cerchia ristretta di persone.
Poi è arrivato Chavez. Con importanti politiche sociali, con fondamentali piani di “crescita complessiva”, ma anche con una fortissima conflittualità sociale – probabilmente frutto naturale e necessario di decenni di squilibri e di ingiustizie. Molte di quelle attività da “varietà televisivo” hanno chiuso, altre si sono rimodellate, altre ancora, con accordi con il nuovo corso, sono rimaste in piedi.
Ma il chavismo, la sua forza, la capacità di aggregazione, di motivare, di dare una “lettura sociale ed un progetto per il pueblo venezuelano” era troppo legato e sagomato sul suo leader. Il chavismo era Chavez. E dal 2013, anno della sua morte, il PSUV ed il Paese sono in crisi. Dai muri, dalle case, dalle scritte il richiamo al socialismo democratico, alla partecipazione popolare, hanno il viso, le frasi, le idee, quasi la voce di Chavez.
I baffi di Maduro,non hanno avuto né il carisma né la capacità di “creare unitarietà” , del leader, e questo si ascolta dalle persone, dai mugugni e dai silenzi dei baristi e dei taxisti. Nonostante i molti manifesti, scritte e striscioni inneggianti a Maduro, questi non è nel cuore delle persone. Anzi, più di qualcuno con cui abbiamo potuto parlare, ed in particolare ricordo un ristoratore, lo accusa di essere troppo tenero ed eccessivamente legato ai “vecchi poteri economici pre Chavez”
Puerto la Cruz, con qualche albergo e locali notturni chiusi, con un’economia e politiche sociali abbastanza frenate dalla mancanza di impulso del chavismo, rappresenta abbastanza bene un Paese che si è fermato a metà del guado, quasi abbia terminato le forze durante la traversata. L’opera di trasformazione e di applicazione del socialismo democratico ha perduto la sua inerzia.
Il Venezuela è anche tanto, tantissimo baseball. Il vero sport nazionale, ed uno dei pochi sport che non riesce proprio ad appassionarmi. Anche il calcio tira abbastanza, ma mai come il baseball, la squadra di Puerto La Cruz è “Caribes de Anzoátegui” – Anzonategui è anche il nome della provincia in cui si trova la città.
Da Puerto la Cruz si può prendere il boat per arrivare a la Isla Margarita, uno dei luoghi a maggiore presenza di Italiana e molto dedita al turismo. Ce ne teniamo lontani.
Nei nostri giri di studio e di piacere scopriamo che le moltissime attività commerciali presenti in Avenida 5 di Luglio, sono in prevalenza di originari arabi – in particolare libanesi, giunti in particolare dopo il 1982. Ed è qui che conosciamo Felix, omaccione simpatico che ci propone di cambiare 1 euro a 90 Bolivar, dopo un po’ di scetticismo decidiamo di seguirlo ed accettare: non c’è fregatura. Il nostro amico Felix entra con i nostri 200 euro nella casa del cambio (dove possono cambiare solo venezuelani) e ci riempie di Bolivar: la vacanza può continuare e diviene molto più light.
Andiamo di corsa a prenotare il bus che ci porterà attraverso la Grand Sabana fino a Ciudad Bolivar, e soprattutto ci concediamo una gran cena, un po’ meno attenti al portafogli.
Ho ragionato molto su questo sistema e questa “quasi legalità” del cambio in nero, e l’unica spiegazione è che sia così immaginato per rendere costosi i prodotti di esportazione (leggasi petrolio), ma allo stesso tempo il cambio “informale” molto molto basso del bolivar , permette e favorisce i turisti e quindi i consumi. Potrebbe essere un’ipotesi.. L’unica certezza è che se vi dirigete in Venezuela portatevi tanti contanti e cambiate, con le giuste accortezze, e prendendo le adeguate precauzioni, on the road.